L'autore, figura lontana dall'accademia benché di formazione prettamente filosofica, si interroga sul vedere in quanto attività appercettiva indagandolo da un particolare luogo di osservazione che considera il fattore assenza. ‘Vista' e ‘vedere' non sono sinonimi, ma entrambi soffrono di un eccesso di presenza e prensilità. Per disegnare le possibilità di una risposta alla domanda apparentemente oziosa “che cosa vediamo quando vedia-mo?” non esita a introdurre l'attitudine filosofica in mondi estranei, costruendo un itine-rario privo di paragoni: dall'esame dei fondamenti teoretici di Astratta Commedia, pièce di Paolo Ferrari recentemente portata in scena, dall'impostazione del rapporto tra pensa-re come gesto anche artistico e produzione industriale, alla storia di uno sguardo in cui è impresso il marchio del logos e che ancora non ha imparato a perdere, sebbene già le vetrate delle cattedrali gotiche preannuncino la possibilità di un venir meno dell'oggetto visivo, a Rembrandt quale occhio pensante che coglie la persona in un oscillare privo dell'anima intesa come sostanza.
Il libro si rivolge per principio alla totalità dei lettori in quanto possessori di vista e con-sente l'avvio da una qualsiasi delle tappe toccate. Esige però l'accettazione del rischio che il mondo si stacchi dall'immagine abituale. Il fine infatti non è l'analisi estetica: attraverso vie inesplorate l'A. mira alla costituzione di un vedere che sappia finire, che si nutra di scarti, differenze e salti di piani in modo che lo sguardo inizi ad oscillare apren-do nuovi panorami agli occhi della specie umana.