Recensione
I carnet del viaggio in Cina ricordano vagamente un suo libro precedente, ma dedicato al Giappone, L'impero dei segni. In questo taccuino di appunti Barthes cerca di decostruire, vincendo l'indifferenza e la noia che qua e là si nota nel testo, la retorica del comunismo maoista anni Settanta. Il viaggio di circa un mese, nel 1974, nasce da un un invito delle autorità cinesi. Barthes va in Cina insieme a tre intellettuali del gruppo «Tel Quel», a quel tempo in pieno fervore maoista tra loro Julia Kristeva – e al filosofo Francois Wahl. Inutile dire che il rituale comprende un programma di visite ufficiali in fabbriche di trattori, scuole, ospedali, stamperie, coltivazioni agricole, quartieri cittadini, il tutto corredato da informazioni sulla riuscita della Cina maoista; così l'Occidente di quegli anni amava vedere il Regno del Mezzo. Barthes sminuzza in micro dettagli l'esotismo del realismo socialista. Gli stereotipi si infrangono sotto il suo sguardo implacabile. Ma tutto questo non si trasforma nella pregnanza del libro dedicato al Giappone. Le cose esistono e magari accadono imprevedibili, ma significano poco altro rispetto a quello che sono.