Van Gulik Il diplomatico olandese che trasformò in crime-story (ispettore Dee) la Cina Tang
Poliedrica personalità di studioso e diplomatico, Robert van Gulik è considerato l'autentico ispiratore di buona parte del poliziesco orientale del Novecento. Nato in Olanda nel 1910 ma trasferitosi quasi subito in Asia, al seguito della famiglia, dai tre al dodici anni visse a Jakarta, dove, tra l'altro prese confidenza con le lingue locali, per le quali mostrava d'essere particolarmente versato. La sua conoscenza del mandarino lo portò di conseguenza a intraprendere, poco più che ventenne, la carriera di funzionario degli Affari Esteri, con incarichi in Cina, Malesia, Giappone e una breve parentesi, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti. Tornato a Tokyo nel 1949, si mise al lavoro sulla traduzione di un classico della letteratura popolare cinese, il Dee Gong An, dal quale trasse l’idea di un ciclo di romanzi che avesse come protagonista il giudice Dee, personaggio ispirato a un magistrato realmente esistito nel periodo della dinastia Tang. Nelle intenzioni originarie di van Gulik v’era, innanzitutto, lo scopo di dimostrare come la Storia e i suoi documenti potessero fornire materiali e ispirazione in gran quantità per una nuova narrativa gialla. Pubblicate dapprima in Cina e Giappone, le avventure del giudice Dee furono presto licenziate da van Gulik direttamente in inglese, forti del consenso che andavano guadagnandosi anche oltre gli angusti confini del genere; a tutto loro merito, il fatto che attraverso una capillare ricerca storica esse non solo avvincevano con gli ingredienti tipici della crime-story, ma divulgavano presso il grande pubblico una cultura allora in buona parte sconosciuta: seguendo un rigoroso criterio di intreccio, in virtù del quale in ogni libro il giudice Dee segue e risolve almeno tre casi (essendo costume, per i magistrati dell’epoca, occuparsi di più affari contemporaneamente), van Gulik inframmezza la narrazione di doviziosi particolari sugli usi della Giustizia e sui costumi locali nella Cina del settimo secolo dopo Cristo; a corredo, numerose tavole di pugno dello stesso scrittore forniscono la quinta ideale delle storie raccontate. In Italia, i suoi libri sono stati pubblicati da Mondadori, poi da Garzanti e, in questi ultimi anni, riproposti dalle edizioni O barra O, le quali hanno appena dato alle stampe il secondo pannello di un polittico che ne vanta almeno sedici: I delitti della campana cinese (traduzione di Mariapaola Ricci Dèttore, con 14 disegni e un postscriptum dell’autore, pp. 266, € 12,00). Come d’abitudine, il giudice Dee sbroglia anche qui più di una matassa, sovrapponendo l’efferato omicidio della giovane figlia di un macellaio ai loschi affari di un tempio buddista. Al di là dell’esattezza della ricostruzione storica, quel che ancora oggi intriga nella scrittura di van Gulik è la scioltezza del narrare, che procede spedito per brevi capitoli cui non di rado è affidato il compito di tirare le fila delle indagini svolte da Dee per bocca dei personaggi che hanno, dal punto di vista narratologico, proprio la funzione di testimoniare, al lettore, ciò che non accade direttamente sulla pagina; inoltre, non è difficile scorgere, nel romanzo, la ferma critica dello scrittore olandese alle derive spirituali dell’Oriente, cui egli oppone – per il tramite del pensiero logico della legge – la saggezza e il razionalismo dell’insegnamento confuciano. Da questo punto di vista, calati nel seno della tradizione giallistica, i metodi investigativi di Dee si ascrivono non tanto al principio abduttivo di un Conan Doyle quanto, piuttosto, all’induzione psicologica di Dickson Carr: ordinando innanzi a sé prove e deposizioni (come farebbe appunto Gideon Fell), il protagonista dei Delitti della campana cinese amministra il distretto di Poo Yang con un occhio rivolto all’anima dei suoi abitanti e l’altro ai quattro grandi ideogrammi imperiali che campeggiano dietro il banco dell’aula in cui tiene udienza e ambiguamente sentenziano che «la giustizia trascende la vita umana».