Recensione
Dove finisce l’odio e dove incomincia l’amore? Un thriller psicologico e claustrofobico che procede in maniera singolare, avvitandosi su se stesso per poi srotolarsi e arrotolarsi nuovamente.
Yi Ch’ongjun è un maestro della letteratura coreana. Nato nel 1939 e scomparso nel 2008, è cresciuto per vedere il suo paese spaccato in due e chissà come avrà vissuto la realtà della Corea del Sud che si è allontanata sempre più da quella del Nord, tanto da rendere improbabile e non desiderata una eventuale riunificazione.
Interno con sequestro coreano, il libro appena ripubblicato dalla casa editrice O barra O, rivela l’influenza della letteratura occidentale sullo scrittore che, d’altra parte, si è laureato in letteratura tedesca con studi su Mann, Hesse e Kafka. Aggiungerei anche Dürrenmatt agli autori che Yi Ch’ongjun deve certamente avere conosciuto. Perché “Interno con sequestro coreano” è un thriller psicologico e claustrofobico che procede in maniera singolare, avvitandosi su se stesso per poi srotolarsi e arrotolarsi nuovamente.
La protagonista è una cantante pop, Paek Nambhui, e il refrain della sua canzone scorre lungo tutto il romanzo, mentre le parole sembrano acquistare un nuovo significato alla luce di quello che accade- Non posso più cantare/ per le strade il rumore del vento…/Non posso più cantare, me ne vado spegnendo la luce. Paek Nambhui sta cantando questa canzone, come è sua abitudine, quando rientra a casa la sera che vi trova dentro uno sconosciuto che la terrà prigioniera finché, quando lei riesce a fuggire, cambiando però idea e tornando a casa, lo trova morto. L’uomo si è suicidato ascoltando la canzone preferita di Paek Nambhui.
Perché lei si dà da fare per ripulire la stanza, cancellare tracce, infilare la giacca all’uomo, prima di andare a rifugiarsi in una villetta su un lago? È quello che cercherà di spiegare al procuratore che la interroga che vuole che lei racconti gli avvenimenti usando il tempo presente, il tempo della realtà, e non il passato che è il tempo della memoria e della ricostruzione dei fatti che potrebbe essere alterata, ad uopo. È forse per questo che Paek non riesce mai ad ancorarsi sull’uso del presente e a completare la sua narrazione degli eventi? Perché ha bisogno di sovrapporre un’altra realtà a quello che è successo?
Quello che appare chiaro è che la cantante ha sofferto di una sindrome di Stoccolma, dopo i primi tempi di paura e avversione. E ha provato una ancor maggiore attrazione verso lo sconosciuto quando ha sentito del suo passato e di che cosa lo abbia spinto a scegliere proprio lei, Paek Nambhui, come prigioniera. La storia che Ku Ch’ongtae le racconta è la parte più prettamente coreana di un romanzo che altrimenti potrebbe essere ambientato ovunque. Una storia di diseredati in lotta per riscattare la terra al mare in un lavoro che sembra la pena di Sisifo e che spinge alla disperazione. E la disperazione spinge al crimine e il crimine porta alla solitudine.
Interno coreano con sequestro è un libro che parla di miseria e di solitudine, di celebrità e di solitudine, è un libro in cui i rapporti tra i personaggi vengono di continuo ribaltati e messi in dubbio e il maestro instillatore del dubbio è il terzo protagonista del romanzo, il procuratore O (molto kafkiano questo procuratore O). Chi è il carnefice e chi è la vittima? Chi rapisce chi? Dove finisce l’odio e dove incomincia l’amore?