La Cina raccontata finalmente da chi l'ha vissuta per davvero
Può la Cina essere spiegata da un filosofo e da un architetto? Possono, cioè, due studiosi di discipline così diverse aiutare il lettore a «comprendere ciò che accade in Cina in questo momento, dopo le riforme economiche degli anni Ottanta, nell’epoca dell’esplosione urbana?».
Il tentativo – non certo semplice ma di sicuro suggestivo – è stato compiuto con successo da Jean-Paul Dollé e Philippe Jonathan: filosofo e scrittore il primo, architetto e urbanista il secondo. Quelle di Dollé e Jonathan sono infatti le due voci della Conversazione sulla Cina tra un filosofo e un architetto, edita dalla milanese ObarraO Edizioni nella suggestiva collana Occidente_Oriente.
Il dialogo tra i due francesi inizia senza preamboli ed entra subito nel vivo anche grazie al fatto che entrambi, da più di vent’anni, si interessano delle vicende dell'Impero celeste, convinti che, prima o poi, «la Cina avrebbe portato al mondo qualche cose di nuovo». Dollé, ad esempio, per sua stessa ammissione, studia la Cina da quando scoppiò il contrasto tra il Partito comunista sovietico e quello cinese: erano i tempi della Lettera in 25 punti. Jonathan è alla pari da sempre affascinato da un paese «alle prese con un progetto ambizioso di rivoluzione delle disuguaglianze» e per molti anni fu l’unico europeo ad abitare nell’Università Tsinghua.
Entrambi, quindi, possono sfoggiare un curriculum - biografico oltre che accademico - di tutto rispetto avendo il merito di parlare di un paese che non solo hanno visitato ma che hanno anche e soprattutto “vissuto” in tempi non sospetti. E considerando che oggi la maggior parte di coloro che parlano di Cina – o si fanno passare per «esperti di cose cinesi» – non hanno mai messo piede in Estremo Oriente, è evidente quanto la Conversazione sia interessante e originale.
Nel libro, infatti, la recente storia cinese viene rivissuta da Jonathan attraverso le grandi e significative (quasi mai casuali) trasformazioni urbane che da Piazza Tian An Men passano per la realizzazione del mausoleo di Mao dopo la morte nel 1976 del Grande timoniere fino al sorgere della cupola ellittica del Teatro dell’Opera della Cina progettata alla fine degli anni Novanta da Paul Andreu. Tutto ciò viene considerato non solo come un insieme di cambiamenti architettonici ma soprattutto di novità simboliche che si consumano all’ombra di una ben più epocale trasformazione socio-economica. Di essa l’architetto centra davvero bene la portata storica: l’urbanizzazione della popolazione cinese che, «rurale per il 75% all’inizio del 1980, sarà urbana per il 70% nel 2015 o nel 2020». Un cambiamento epocale che in Europa si è manifestato e realizzato in 50 anni e che in Cina “rischia” di completarsi in un solo ventennio.
Dollé a suo modo accompagna le riflessioni di Jonathan in modo meno “empirico”, come è giusto che faccia, per l’appunto, un filosofo. E il suo contributo si rivela proprio per questo complementare all’altro in quanto aiuta a contestualizzare le grandi trasformazioni – passate e future e già prese in considerazione da Jonathan – alla luce di una braudeliana concezione cinese del tempo che implica «periodi di lunga durata e contemporaneamente bruschi cambiamenti d’epoca» originando così una storia «che sembra immobile a forza di essere immutabile e ripetitiva, interrotta quando l’occasione si presenta e il nuovo imperatore demiurgo l’afferra».