Recensione di "conferenze di Tokyo" di Fabrice Midal
“Fin dall’adolescenza, la lettura di Heidegger è stata per me un punto d’appoggio sicuro, una possibilità di tenere in piedi, di ritrovare sotto la forza della non-parola e del non-mondo da cui siamo tutti, almeno in parte, schiacciati, una dimensione viva e libera.[...] un lasciar essere possibile”
Conferenze di Tokyo. Martin Heidegger e il pensiero Buddista raccoglie le conferenze di Fabrice Midal filosofo francese specializzato in buddismo, tenute all’Università di Tokyo nel 2010. Dallo stile provocatorio e invettivo, caratterizzate dal mantenersi enfatiche e di grande forza argomentativa, le quattro parti in cui è diviso il libro edito dalla O barra O edizioni, cercano di rispondere argomentando in uno stile saggistico, al come queste due filosofie si allaccino. L’incontro per il lucido Midal è il cammino possibile da una parte per affrontare il nichilismo e dall’altra per permettere al buddismo di far fronte alla dissoluzione del proprio pensiero e della propria lingua, nella prospettiva tecnico-metafisica.
L’avvicinamento delle due filosofie viene fatto evitando di compararle, di ridurle l’una nell’altra, di pretenderne una lettura senza sforzo per sorprendere schizofrenici universalismi; l’attenzione di Midal non è quella di ridurre monumenti ricchi di vita ad approssimativi pasticci ne quella di voler proclamare tesi opposte o complementari che siano. I due pensieri sono avvicinati con l’intento della comune presenza e, prendendone la singolarità nel guardare lo stesso preciso punto, la loro conservazione viene fatta muovere nell’appropriazione. Su questo terreno, Midal riflette su numerose questioni: l’esperienza del pensiero come pensiero meditante e non pensiero strumentale, ruolo del sacro (bravissimo nell’avvicinare Durkheim e Allen Ginsberg: “il sacro non come qualcosa di totalmente altro, ma come un profumo che impregna tutta la realtà riconosciuta nella sua apertura”) il rito, il religioso, il ruolo divino, e tanto ancora. Numerosi i contenuti, che riescono a rimanere abbastanza accessibili anche per coloro che si stano approcciando per la prima volta alle due filosofie; anche se alcune cose non vengono approfondite, in Conferenze di Tokyo ci sono comunque strumenti per poter procedere senza difficoltà nella lettura: utilissimo è il concetto heideggeriano Dasein che si fa sentire in tutta la lunghezza del libro.
Sulla scia del filosofo tedesco, Midal prima ancora di chiedersi cos’è il nostro essere, di ricercare la consistenza dell’essenza, domanda che cosa vuol dire per noi essere. In più pagine il suo non è un “essere” semplicemente qui, che finirebbe per essere un pensiero dell’ego, ma in uno spazio intorno a se (e qui il buddismo si si fa sentire: l’illusione di un sé autonomo e indipendente) colloca l’essere umano. Il Dasein tra le pagine diventa il modo più efficace con cui ci si mette di fronte la nostra responsabilità, allontanandoci da un attivismo avulso che scaturirebbe in una radicale ferocia. Su questa chiusura in se stesso aspra è la denuncia che fa Midal delle numerose opere che presentano il Buddismo come un modo per sconfiggere l’ego quando per il filosofo francese non è un perfezionamento, ma piuttosto uno sconfiggere l’illusione ego. Ego che porta l’irraggiungibile sicurezza totale, a risvolti deliranti e minacciosi nell’epoca della prospettiva tecnica.
La difficoltà nel conoscere il Daesin e il Non-ego, ed è su questa che il libro fa leva per portare il lettore ad auto-interrogarsi, sta proprio nell’effetto responsabilizzante, nelle “debolezze del cervello” come direbbe Rimbaud: il bene contro il male, la pace contro la guerra, i diritti sulla barbarie (sempre che non sia la nostra). La protagonista, in un libro scritto così fitto è (paradossalmente?) la Vacuità: nulla più da ottenere, neanche Midal fedele a quanto scrive pretende di farlo, ma il “rispetto dell’Aperto” come lo definisce. Non segno di rinuncia, ne di nichilismo, vacuità non come terrore del vuoto dagli inquietanti risvolti; nulla a che fare con un aggrapparsi all’elogio dell’io “in nome di una morale beata e beota” e nemmeno impossibilità di qualsiasi pensiero. In Conferenze di Tokyo non si declina la lotta all’inafferrabile, ma al contrario il “non sostanziale” che sorprende la presenza di un uomo nell’esistenza di una “Realtà” come sorta di prova momentanea, ma non per questo vano tentativo, anzi.