Così amletici (e così potenti)
I vocabolari attribuiscono al verbo "esitare" il significato di "essere incerto, perplesso, dubbioso, mentre l'etimo della parola viene dal latino, dal verbo che indica "restare attaccato". L'esitazione è dunque una soglia su cui ci si trattiene. Un filosofo tedesco, Joseph Vogl, in un libro molto acuto, Sull'esitare, sostiene che si tratta di un vero e proprio spazio del pensiero; di più: l'esitare è l'ombra che accompagna ogni decisione. A sua volta "decidere" contiene il gesto drastico del "tagliare via". L'uomo della decisione è Alessandro. Di fronte al nodo di Gordio, viluppo indistricabile, il cui scioglimento, avevano preconizzato gli indovini, decretava la conquista del mondo allora conosciuto, il re e condottiero prende la spada e lo recide di netto.
Oggi noi viviamo in un'epoca in cui la decisione sembra dominare sovrana: l'uomo che decide pare possedere maggiori possibilità di farcela. E tuttavia l'ombra della decisione s'allarga sempre più : l'esitazione è anche uno dei dati caratteristici della nostra età, immersa sempre più in un'atmosfera amletica: essere o non essere? Non è così un caso che decisione ed esitazione si bilancino in una sorta di condizione schizofrenica, di incertezza dell'Io.
Vogl, uno dei più interessanti filosofi tedeschi della generazione di mezzo, ci induce a riconsiderare nel suo saggio l'intera questione. Ci presenta l'irrisolutezza, l'inerzia, la mancanza di volontà, o la mera indolenza, come un'affezione, uno stato d'animo; meglio, uno stato di equilibrio in cui si liberano, e al medesimo tempo si arginano, affetti opposti. Se tradizionalmente nel pensiero occidentale l'esitazione è stata sempre confinata nella indeterminatezza, oppure degradata a lunatica frustrazione del fare stesso, bisogna invece riconoscere in essa un gesto attivo del chiedere in cui l'opera, l'azione, la decisione sono colti non già come compimento, bensì come nascere e divenire.
Qualche decennio fa un altro filosofo tedesco, Hans Blumemberg, uno dei maggiori pensatori contemporanei, aveva proposto qualcosa di analogo, definendo questo stato, in cui la decisione non è ancora presa e il pensiro sosta su se stesso, "pensosità", mettendo così in luce la funzione fondamentale della domanda, dell'interrogazione. Vogl spinge più in là la questione. Rifacendosi al teatro greco, e soffermandosi su Coefore, la tragedia di Eschilo, fa notare come la stessa scena drammatica di questa forma di rappresentazione si costituisce come un intervallo estorto agli dei, un'"azione sospesa a scopo dimostrativo".
A Oreste, che ha giustiziato Egisto, assassino del padre in combutta con la madre, si para dinanzi a Clitennestra. Fa il gesto di ucciderla, ma lei si scopre il seno e lo invita a venerare il luogo da cui ha tratto il suo nutrimento. Il "Che fare?", la domanda urgente di Oreste, è il punto massimo dell'esitazione. Vogl ci mostra come in quell'istante si evidenzi la facoltà, o potenza, di fare o non fare qualcosa. Sono due corni del dilemma, per cui non solo il "fare" è potenza, nel senso aristotelico del termine, ma anche il "non-fare" lo è ugualmente. Si tratta di un interrogativo non solo filosofico, ma anche politico. Vogl ci vuole suggerire che non esiste la capcità di fare, o di non essere, questo o quello, ma anche "il potere di non attualizzarsi, di non divenire attualità".
Si tratta di una questione che Giorgio Agamben ha posto in un breve scritto, "Se ciò che possiamo non fare", in Nudità. Partendo da Gilles Deleuze e da un passo della Metafisica di Aristotele, egli riflette su un problema molto attuale. Il potere, dice, non lavora solo sulla potenza, rendendo gli uomini impotenti, incapaci di fare, ma al medesimo tempo anche sulla loro impotenza, su ciò che non possono fare, o meglio "possono non fare". La distinzione è sottile. Ci dice Agamben che noi non siamo solo separati da ciò che possiamo fare, ma per lo più da ciò che possiamo non-fare: "Separato dalla sua impotenza, privato dell'esperienza di ciò che può non fare, l'uomo odierno si crede capace di tutto e ripete il suo gioviale "non c'è problema" e il suo irresponsabile "si può fare", proprio quando dovrebbe invece rendersi conto di essere consegnato in misura inaudita a forze e processi su cui ha perduto ogni controllo".
L'eroe del non-fare come potenza è lo scrivano Bartleby di Melville che pronuncia il suo "Avrei preferenza di no". Vogl propone qualcosa di diverso: considerare l'aspetto pragmatico dell'esitazione, la quale si può considerare come un evento nell'evento, come una riserva latente che persiste in ciò che è fatto e subito, in ciò che si manifesta e accade realmente. Il discorso del filosofo tedesco è complesso e insieme sottile, e presuppone l'idea di una temporalità in cui non esiste solo un tempo cronologico lineare e irreversibile, ma un tempo che contiene anche i futuri possibili, un tempo del "già e non ancora".
In un sistema come quello contemporaneo, in cui l'informazione, i confronti diretti d'ogni tipo, i cosiddetti targets of opportunity, i bersagli d'occasione, sono dominati dalla rapidità della risposta, annullando così lo spazio tra il domandare e il rispondere, Vogl reintroduce una cosa di cui abbiamo molto bisogno dopo l'11 settembre 2001: il senso della possibilità.
Le culture contemporanee sembrano impegnate soprattutto nella cultura del pericolo, e producono di continuo, più o meno consapevolmente, un collasso del senso storico della possibilità. La filosofia dell'esitare introduce uno spazio di riflessione là dove il gesto del recidere il nodo del presente produce effetti deleteri e distruttivi.