Recensione
Andrea Cortellessa, Alfabeta2, 28/05/2013

Ludopatia

All’indomani dello spettacolare showdown di Luigi Preiti all’OK Corral di Palazzo Chigi, lo scorso 28 aprile, mentre Re Giorgio puntava tutto sull’estremo azzardo della sua carriera politica (il primo governo a vedere uniti nella lotta ex comunisti ed ex fascisti: così definitivamente sancendo la fine del paradigma resistenziale sul quale la Repubblica s’era fondata), i forzati dei salotti televisivi si sono divisi in due partiti: i giustificazionisti sociali e gli irrazionalisti a oltranza. Quelli che la colpa è della crisi economica che non lascia speranze, e quelli che individuum est ineffabile e gli abissi della psiche riluttano a qualsiasi spiegazione (men che meno a quelle che puzzino di «ideologia»). Qualche giorno dopo, però, tuffandosi voluttuosi nelle pieghe della povera esistenza di Preiti, anche i più sordi media generalisti si sono visti costretti a gettare l’allarme sociale della ludopatia.

Al fenomeno (affrontato anche sul nostro numero 24, lo scorso novembre) ha dedicato un ragguardevole uno-due Marco Dotti: questo palombaro spericolato negli enfers della modernità, capace di coniugare un’erudizione scintillante a un’insana curiosità per le pieghe più incondite, e rivelatrici, dell’animo umano di cui sopra (si ricorda l’exploit del 2006, Luce nera, sulle fascinazioni esoteriche di Strindberg e dei surrealisti). Slot City è insieme un’indagine sul campo e un’archeologia del presente: che rimonta all’ingenuo quanto squallido gioco d’azzardo anni Sessanta, quello dei romanzi di Piero Chiara, come agente di contrasto capace di illuminare il paesaggio in rovine della Lombardia attuale.

Se la Las Vegas della Brianza, Consonno, appunto fra anni Sessanta e Settanta fu un «miraggio in una vita fatta di oasi e deserti», oggi che il paese è una ghost town all’italiana, intorno «non ci sono né oasi, né miraggi. C’è solo il deserto». Del resto anche la Las Vegas «vera» è da tempo in crisi: quando, occhieggiante in ogni bar, «il gioco d’azzardo è ovunque e quindi in nessun luogo». Proprio come Dio. Infatti l’altra anta del dittico di Dotti – aperta dall’immagine gloriosa della Crocifissione del Mantegna nella Pala di San Zeno, oggi al Louvre, che mette in scena il tòpos evangelico dell’«inconsutile» veste di Cristo che i centurioni si giocano a dadi ai piedi della Croce – approfondisce il paradigma culturale dell’azzardo, enucleandone le radici filosofiche e, appunto, addirittura metafisiche (da Pascal a Duchamp e Caillois passando per il Coup de dés di Mallarmé).

Quanto più colpisce, nell’addiction di massa rappresentata dalle ludopatie (le cui statistiche sono impressionanti: la Sindrome da Gioco Compulsivo riguarderebbe un milione e mezzo di italiani che vi avrebbero dilapidato, negli ultimi sei anni, oltre 200 miliardi di euro: una cifra pari al debito pubblico della Grecia nello stesso periodo), è l’inversione assiologica – un vero e proprio contrappasso – per cui l’abbandonarsi al Caso, perseguito dal giocatore come sollievo rispetto al sempre più soffocante stringersi delle Necessità economiche, finisce per rivoltarsi nel proprio simmetrico contrario. Ricordando i metafisici emblemi del Mantegna, cioè, il Dado finisce per essere micidiale quanto il Chiodo.

In un racconto di Philip K. Dick (che nel romanzo Solar Lottery immaginò come anche il potere politico possa essere affidato all’azzardo, come oggi qualcuno, nell’estrema delegittimazione della democrazia rappresentativa, si spinge a sostenere seriamente: si veda Gaspare Polizzi sul numero 28 di alfabeta2), il flipper aumenta la posta in gioco sino a trasformarsi in una catapulta che proietta sul giocatore la palla di metallo omicida. Nell’estremo rappresentato dalla «roulette russa», quest’inversione resta confinata al campo psichico (e alla sorte mortale) del soggetto; ma la sparatoria a Largo Chigi ci ricorda come ogni pulsione suicida, qual è con tutta evidenza quella del ludopate, possa convertirsi in un’aggressività tanto inconsulta quanto micidiale.