Recensione
Fabio Gambaro, Repubblica, 12/11/2014

Così l'idea di crisi infinita cancella il passato e il futuro

La studiosa Myriam Revault d'Allonnes ha scritto un saggio su questo tema che ha aperto la discussione in Francia. "Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari".

PARIGI - "Oggi abbiamo tutti la sensazione di vivere una crisi senza fine. Ma una crisi che non finisce mai non è più una crisi. Diventa il sintomo di qualcos'altro". Proprio a questa crisi onnipresente e inamovibile che sembra diventata "la trama della nostra esistenza", la filosofa Myriam Revault d'Allonnes ha appena dedicato un corposo saggio, La crise sans fin (Seuil, pagg. 197, euro 19,50), che in Francia sta suscitando moltissimo interesse. Ripercorrendo storicamente l'idea di crisi, la studiosa francese ne propone una lettura originale in relazione con la nostra percezione del tempo e del futuro. Una prospettiva che le permette di affrontare la questione, sfuggendo ad ogni disfattismo rinunciatario. "La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l'economia e la cultura, l'ambiente e l'educazione", spiega Myriam Revault d'Allonnes, che insegna filosofia politica a Parigi, all'Ecole Pratique des Hautes Etudes e a Sciences Po. "Ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l'oppressione è perché siamo particolarmente sensibili a una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell'economia, abbiamo l'impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi della famiglia o della coppia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva".

Lei però sottolinea che si usa la parola crisi in modo improprio. Perché?
"C'è stato un vero e proprio rovesciamento del suo significato originario. I greci utilizzavano la parola krisis soprattutto in ambito medico per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall'incertezza, si decide una strategia e s'individua una via d'uscita. Oggi però la crisi ci sembra permanente. E' onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d'uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sul suo statuto e sulle sue caratteristiche. Insomma, quella che era un'eccezione è diventata la norma".

Una crisi senza fine è ancora una crisi o diventa qualcos'altro?
"Questa impressione di crisi diffusa a cui non sappiamo sottrarci è una metafora della condizione dell'uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Nella modernità, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall'idea di progresso. Per Hegel, Marx e i teorici della economia politica, è una fase critica da superare in direzione di un futuro migliore. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l'idea di futuro. La nostra visione dell'avvenire è infatti incerta, non prefigurabile. Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari. Simbolicamente, per l'uomo occidentale è emerso come ha scritto Lévinas - un tempo senza promesse. Secondo me, questa è la chiave per capire la nostra situazione".

Un tempo senza futuro modifica anche la relazione con il presente?
"Il presente appare come dilatato all'infinito, invade tutto. Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all'infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile".

Le trasformazioni tecnologiche non sembrano indicare un movimento continuo?
"È solo un effetto ottico. In realtà, questa accelerazione frenetica gira a vuoto senza produrre cambiamenti reali nelle nostre vite. Per Virilio ci troviamo in una situazione d'immobilità folgorante. La famosa frase del Gattopardo, occorre che tutto cambi perché tutto rimanga com'è, riassume molto bene la percezione che abbiamo della situazione".

All'epoca dell'Illuminismo, l'idea di crisi era legata al cambiamento. Oggi non è più così. Perché?
"L'inquietudine della modernità fa da sfondo all'attuale situazione di crisi. L'uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d'incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L'inquietudine e l'incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche - come avviene oggi - un sentimento di abbandono e d'impotenza di fronte alla catastrofe imminente. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino".

Lei riprende la metafora dell'uomo in gabbia proposta da Max Weber...
"In effetti, una gabbia d'acciaio, che però non è solo il risultato delle costrizioni esterne che pesano sull'uomo, ma anche delle costrizioni che ciascuno impone a se stesso per adattarsi a tale situazione. Più o meno consciamente ogni individuo partecipa alla costruzione della gabbia in cui sta chiuso".

Per alcuni questa condizione d'imprigionamento senza futuro rappresenta la fine della storia e della politica. Anche per lei?
"No. Il leitmotiv della fine secondo me è controproducente. Preferisco ricordare Hannah Arendt che, alla metafora della gabbia, contrappone la metafora della breccia. E' un approccio non necessariamente più confortevole, ma certamente più produttivo. La breccia, oltre a indicare la rottura con la tradizione, spiega la condizione esistenziale e antropologica di un uomo che, anche quando smarrisce i propri punti di riferimento, non perde la facoltà di pensare e la capacità d'iniziativa. In questa prospettiva, la crisi può spingere a proiettarci in avanti alla ricerca di un nuovo inizio. Ritrovando il suo significato originario, la crisi diventa allora occasione di cambiamento".

Nella pratica, di fronte alla crisi, cosa si può fare?
"Innanzitutto, recuperare il senso critico per sottrarci alla gabbia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Dobbiamo fare un lavoro critico su noi stessi, ma anche valorizzare le capacità della società democratica di sottrarsi all'immobilismo. Nella dinamica democratica c'è sempre qualcosa che ci permette di non considerarci condannati alla sconfitta".

Sul piano individuale, cosa può significare la metafora della breccia?
"Significa che l'individuo deve saper reinventare la propria relazione con il tempo, il futuro e l'incertezza. Naturalmente è molto difficile, specie nell'attuale situazione economica. Non è facile domandare a un lavoratore precario di ripensare il suo rapporto con un avvenire incerto. E non si tratta di vantare il fascino della precarietà o della flessibilità. È però necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell'azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare quella che Kundera chiama la saggezza dell'incertezza. Accettare l'incertezza non significa rassegnarsi alla precarietà, ma provare ad affrontare in modo diverso la realtà. Insomma, la crisi infinita non è la fine di tutto, ma un compito infinito che rifiuta la fatalità".