"I silenzi di Federer": fenomenologia di un campione inattuale
Non solo Agassi. Il tennis continua il suo momento magico in libreria con due saggi incentrati sulla figura di re Roger, l'ultimo artista del rettangolo capace di trasformare una palla di cannone in raggio di luce.
Agosto 2012, Olimpiadi di Londra, semifinale tra Roger Federer e Juan Martin del Potro. Alla quarta ora abbondante di gioco, nel ventinovesimo game del terzo set, lo svizzero conquista tre palle break ma l'argentino gliele annulla una a una. Roger tradisce un certo disappunto togliendosi un pelucco dalla maglietta mentre si concentra per l'ennesimo servizio. Vincerà il game 19-17, e poi la partita più lunga della storia delle Olimpiadi. "Se avessi avuto l'energia mentale di Federer non avrei mai smesso", ha detto John McEnroe. Vero. Essenza del ritmo, estetica della grazia, Roger Federer svuota l'azione da ogni linguaggio, schiude quella "bellezza transitoria che noi desideriamo vedere altre volte". Uno dei primi a intravederla è stato l'ex (talentuoso) tennista David Foster Wallace, di cui Einaudi ha appena pubblicato Il tennis come esperienza religiosa, due saggi-reportage dedicati agli Open americani e all'epopea del campione elvetico, subito in classifica sulle orme del sorprendente Open di André Agassi. Altrettanto acuto e interessante è I silenzi di Federer di André Scala (O barra O Edizioni), filosofo francese considerato uno dei maggiori studiosi di Spinoza e Berkeley. La sua analisi, condotta attraverso una serie di brevi capitoletti dalle intuizioni folgoranti, si allarga allo spettacolo sportivo e allo stesso concetto di narrare lo sport, chiamando in causa Umberto Eco e Yannick Noah, Borg e Pasolini, Jimmy Connors e Glenn Gould, Rod Laver e Bertolt Brecht, Dino Buzzati, René Descartes. Anche al tempo di Federer il "neoclassico", come diceva Pindaro, l'atleta ha bisogno del poeta. Quando Ivan Lendl invitò il tennis nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, ansimando il suo lungolinea come una specie di macchina automatica, nessuno poteva immaginare che un giorno quello sport avrebbe avuto un nuovo interprete classico. Uno che nell'epoca delle "rifrazioni aberranti dovute alla curvatura del lift, alla rotazione disarticolata dei polsi", dei proiettili scagliati mirando a una zona mobile, gioca un tennis in stato di variazione continua. Difficilmente gli altri trovano risposta. Per Roger Federer la palla simboleggia ancora la luce, la racchetta uno strumento mistico in grado di rifrangere imprevedibilmente il raggio oltre la rete e illuminare un punto. John McEnroe sa che Roger possiede qualcosa del suo vecchio istinto nell'accarezzare con leggerezza la palla, del suo gesto inatteso a confinare l'avversario fuori dai limiti laterali del campo, dell'impossibilità di giocare senza dare spettacolo. Tuttavia ha capito che quell'atteggiamento sul campo, l'antiteatro di Federer, è frutto di una mente programmata per vincere, fin dal palleggio di riscaldamento. Come corollario, quando gioca Federer scompare la sudditanza al mezzo televisivo e il gioco, il tennis, torna a trascendere il giocatore. Il tennis come esperienza metafisico-estetica-religiosa si trova agli antipodi della sua sovraesposizione televisiva. Mentre una partita è oggi una rappresentazione tra kermesse e divismo, Foster Wallace e Scala celebrano, ciascuno a proprio modo, la sfida archetipica fra il talento e la forza. Le lacrime di Achille e l'urlo di Ettore. La solitudine del campione contro la legge dell'espressività che oggi il "brand" tennistico pretende dai suoi attori. Il silenzio del gesto contro l'horror vacui che governa la macchina televisiva e la società tutta, avvolgendo e modellando le nostre abitudini (guarda caso, i commentatori televisivi usano per i giocatori parole-sintomo come frustrazione, depressione, desiderio, insoddisfazione). Al termine delle acute riflessioni di Scala e Foster Wallace è l'evidenza della semplicità a rimanere impressa. Federer esprime misteriosamente l'amore del gioco per il gioco. Come un bravo attore, come un filosofo stoico, si è allenato prima ancora che a colpire la palla in questo esercizio difficilissimo: "porre un'attenzione immensa in ciò che non dà pensiero, in ciò che è indifferente". Guardar giocare Federer è recuperare nell'inconscio un effimero sublime. Il volo, il silenzio, il vuoto, il piacere puro della ripetizione. Chi da bambino si è mai trovato solo davanti a un muro con una racchetta e una pallina, sa di cosa stiamo parlando.