La guerra infinita raccontata da un cronista vero
Non sono molti i giornalisti, italiani o stranieri, che scrivono un libro per lasciare al lettore più dubbi che certezze. Eppure è questa la sensazione che si fa strada man mano che scorrono le pagine di Diario da Kabul. Appunti da una città sulla linea del fronte, di Emanuele Giordana. Diario, innanzi tutto. Giordana, cronista di grande tatto, rifugge per indole dalle generalizzazioni e dalle formule preconfezionate. Il diario, scritto in soggettiva stretta, senza nascondere la parzialità dell'inquadratura, l'arbitrarietà nella scelta dei temi, i propri gusti personali, consente di procedere per accumulo. Una nebulosa di storie, analisi e aneddoti sulla vita quotidiana di Kabul: la capitale afghana prende forma poco a poco, rivelando gli aspetti meno noti della guerra e rosicchiando le certezze che tutti, chi più chi meno, pensiamo di avere a proposito di quello che si dovrebbe fare in Afghanistan, per il bene nostro e degli afghani.
Solo nelle ultime righe, quando il lettore è ormai "maturo", arriva l'asso: rivendico orgogliosamente di aver scritto, prima dell'attacco del 2001, che questa guerra non andava fatta e resto dell'idea che vi fosse un'altra soluzione - scrive Giordana, che l'Afghanistan lo frequenta da quando era una meta dei viaggi un po' freak alla scoperta dell'Asia alla fine degli anni Settanta - Ma andando laggiù, parlando con la gente, facendo lo sforzo di ascoltare le loro opinioni, tappando la parte del mio cervello che mi forniva risposte preconfezionate, mi sono reso conto che la maggior parte degli afghani, come confermano i sondaggi, no vuole affatto che i soldati della Nato se ne vadano". A questa opinione, scomoda per chi chiede il ritiro delle truppe subito, corrisponde quella per cui ha ancora meno senso continuare con la guerra così come sta avvenendo.
Scrive Giordana che la presenza delle truppe Nato [e in parte del contingente statunitense] è, per gli afghani, il "meno peggio", rispetto ai talebani, alla guerra civile che ha dilaniato città e campagne dopo la fine dell'invasione sovietica, alla possibilità concreta che il paese diventi una Somalia asiatica, un gorgo nel cuore del continente più grande e popoloso del pianeta. Il meno peggio, sì, a patto però che la conduzione della guerra cambi e soprattutto che cambi il modo in cui gli occidentali guardano gli afghani. Un aspetto evidente, nel Diario da Kabul, è proprio la cecità dello sguardo occidentale sul paese e i suoi cittadini.
L'Afghanistan sfida di continuo i cliché usati per raccontarlo e Giordana, nella sua scrittura diretta, asciutta, cerca di rivelarli a se stesso – è un diario, appunto – prima che al lettore. Lo fa raccontando: di quei bar della vita notturna di Kabul; dei contractors e del business della guerra; dell'operazione di ernia subita all'ospedale pubblico di Kabul; del cibo, degli abitanti, dei mercati e dei piccoli piaceri che pure è possibile trovare, a cercare bene, in una città ossessionata dalla sicurezza e dalla paura. Non è leggerezza, è una reazione intellettuale e intima all'orrore che potrebbe essere dietro l'angolo a che aleggia anche in una conversazione rilassata davanti a un tè fumante. Perché la guerra, la paura, spingono a cercare conferma delle proprie idee, spingono al giornalismo embedded, a chiudersi nei compound protetti dalle guardie armate e dai cavalli di frisia, ad attraversare Kabul in convogli corazzati, a colpire dal cielo con i bombardieri, uccidendo centinaia di civili. A trattare, insomma, l'Afghanistan come una cartina geografica a due dimensioni, su cui muovere le pedine di una partita a scacchi con la guerriglia: tot città conquistate, tot regioni sotto controllo.
È una partita destinata a durare ancora molto a lungo, se non si esce dagli Humvee e dalle Garritte. Se non si scommette sugli afghani, non per "vietnamizzare" il conflitto o per affidare il lavoro sporco della lotta "villaggio per villaggio" a un governo che puzza di corruzione ed è inquinato dai rapporti con i signori della guerra. La scommessa è sulla capacità degli afghani di immaginare per il loro paese un futuro di pace e di faticosa, lenta, ma inesorabile ricostruzione, oltre le griglie delle appartenenze etniche, altro cliché utile soprattutto a rappresentare la guerra a gli afghani in modo "addomesticato".
Da questa prospettiva possono venire indicazioni per il "da farsi". E più che indicazioni sono considerazioni basate sul buon senso del cronista, lontano dai ragionamenti geopolitici, dagli equilibrismi di governi e stati maggiori, ma anche dalle formule e dai formulari delle Ong che lavorano per progetti, griglie di Excel, acronimi e "buone pratiche". Perché anche un concetto come "società civile" – formula magica a cui si ricorre sempre più spesso per qualsiasi male politico – in Afghanistan [come in qualsiasi paese "reale"] rischia di diventare solo un'altra declinazione dello sguardo occidentale, e un'altra, ennesima occasione sprecata senza imparare a camminare sulla terra con meno orgoglio.