Recensione
DI ROBERTA GIACONI MILANO (Reuters) - C'è una guerra sul suolo africano che non si combatte con le armi, ma con relazioni diplomatiche e commerciali. Mentre i paesi occidentali faticano sempre di più a mantenere l'antica supremazia, è la Cina che si sta facendo spazio preparandosi a diventare il primo partner commerciale del Continente Nero. Con conseguenze potenzialmente esplosive nel campo dei diritti umani. E' quanto affermano due saggi pubblicati in Italia, "L'Africa cinese" di Stefano Gardelli (Università Bocconi editore) e "Safari cinese" di Cecilia Brighi, Irene Panozzo e Ilaria Maria Sala (O barra O Edizioni). La strategia di Pechino in Africa, concordano gli autori, si basa su tre pilastri: accesso a materie prime e risorse agricole del paese, apertura di un mercato con grandissime potenzialità di crescita, formazione di alleati solidi negli organismi internazionali. A differenza dell'Occidente, dicono ancora gli autori, la Cina non chiede però il rispetto dei diritti umani o di altri criteri di sviluppo per concedere i suoi finanziamenti. "La politica di aiuti economici senza alcun vincolo - scrive Gardelli - E' forse la più importante e controversa caratteristica dell'assistenza economica cinese". Se l'80% delle banche commerciali del mondo applica l'"Equator principle", codice di condotta per i finanziamenti approvato nel 2003 dalla Banca Mondiale, nell'Impero di mezzo è la China Export Import Bank (Exim bank) a gestire quasi tutti i prestiti ai paesi in via di sviluppo senza alcun rispetto per gli standard occidentali. Emblematico è il caso del Sudan, uno dei maggiori partner commerciali per il petrolio di Pechino: quando nel 2004 il presidente americano George W. Bush fece pressioni in sede Onu perché venissero applicate sanzioni economiche contro il paese, colpevole del genocidio in Darfur, la Cina si oppose per difendere sia l'alleato sia i propri interessi. Dall'altro lato, l'appoggio degli stati africani è stato utile ad alcune rivendicazioni storiche cinesi, come quella su Taiwan, l'isola formalmente indipendente su cui Pechino reclama la sovranità. I voti africani si sono rivelati essenziali non soltanto per bloccare l'adesione di Taiwan all'Organizzazione mondiale della Sanità, ma anche per l'assegnazione a Pechino delle Olimpiadi 2008 e dell'Expo 2010 a Shanghai. Lo scorso marzo, inoltre, il governo sudafricano ha negato il visto al Dalai Lama che avrebbe dovuto partecipare ad una conferenza di pace a Johannesburg. La strategia di Pechino si presenta come modello di partnership alternativo a quello occidentale. "I cinesi ci trattano come pari, gli occidentali come ex subordinati", ha affermato Festus Mogae, presidente del Botswana. Cina e Africa condividono infatti una serie di valori, non ultimo il rifiuto della tanto sventolata democrazia occidentale come migliore forma possibile di governo e come base indispensabile per lo sviluppo. CON LO SGUARDO RIVOLTO AD EST La Cina ha promesso una linea di credito ai vari stati del continente per 5 miliardi di dollari, una linea di credito preferenziale da 3 miliardi di dollari nel 2006-2009 e la creazione di un fondo per lo sviluppo dell'Africa da 5 miliardi per le società cinesi intenzionate a investire sul territorio africano. L'obiettivo dichiarato è inoltre quello di far salire il commercio bilaterale ad oltre 100 miliardi di dollari entro il 2010, un'operazione che farebbe della Cina il primo partner commerciale dell'Africa. "Il vertice (del 2006 tra Pechino e gli stati africani) ha colto l'occasione per bacchettare i paesi sviluppati, perché aumentino gli aiuti allo sviluppo e onorino i loro impegni per un mercato aperto e la cancellazione del debito", scrivono le autrici di "Safari cinese". I problemi della silenziosa conquista e gli accordi con gli instabili regimi dittatoriali africani rischia però di avere ripercussioni negative. Sono in molti a temere che in futuro la Cina si trovi costretta ad abbandonare l'attuale politica di non intervento in campo politico. Come ad esempio nel 2005 in Zambia, dove il candidato dell'opposizione Michael Sata condusse una campagna elettorale incentrata sul crescente sentimento anticinese, impegnandosi, in caso di vittoria, a riconoscere Taiwan. Pechino minacciò di ritirare tutti gli aiuti economici concessi al Paese e Sata perse le elezioni, ottenendo soltanto il 28% dei voti.