Recensione
Emanuele Giordana, La nuova Sardegna, 28/12/2004

L'inferno dei Khmer rossi

Chi pensa che la macchina di sterminio degli khmer rossi fosse stata creata in occasione della presa del potere di Pol Pot nel 1975, avrà di che ricredersi leggendo S-21. S-21 era l'abbreviazione con cui era nota, nel linguaggio burocratico concentrazionario khmer rosso, la prigione del regime: l'ex liceo Ponhea Yat di Phnom Penh, conosciuto anche come carcere di Tuol Sleng, oggi museo nazionale dell'Olocausto cambogiano. Ma S-21 fu solo la messa a punto di una macchina che era forse già stata avviata ben prima nelle “zone liberate”, durante la guerra di resistenza contro il governo appoggiato dagli americani e che sosteneva le operazioni di guerra contro i vietcong vietnamiti in Cambogia. Il nome in codice era M13 e il suo direttore, non certo a caso, era Kaing Guek Eav, meglio noto come Duch. Duch, divenne poi il direttore di S-21 e attualmente è uno dei pochi khmer rossi finiti in prigione. La sua presenza nei due bracci della morte rivela come il piano di sterminio, lungi dall'applicarsi solo a qualche dissidente, avesse preso la strada del genocidio già prima del '75. Come il progetto dell'Anno Zero fosse già maturato nella testa della leadership khmer rossa. Come avesse dunque già un passato a M13 che, attraverso Duch, si ricollegava al presente con S-21. Preso il potere nel '75, i khmer rossi organizzarono la prigione di Tuol Sleng come luogo di interrogatori sommari e come macchina per la distruzione fisica degli individui. Era l'aspetto “formale” del genocidio visto che morirono “solo” 14 o 16mila persone. Fuori dal carcere la distruzione sistematica di oppositori aveva preso il ritmo delle esecuzioni sommarie o, più semplicemente, della morte per stenti. Una capitolo buio della storia dell'Asia (molti tasselli per ricostruirlo mancano ancora) ma sul quale le responsabilità sono equamente suddivise tra Oriente e Occidente. Quando infatti il Vietnam, spalleggiato dall'Urss, invase la Cambogia, ponendo fine nel '79 al regime di Pol Pot, i cinesi per primi, ma con loro americani ed europei, si schierarono con i khmer rossi. Era l'epoca della Guerra fredda (e per altro il Vietnam era in torto) e sulla stagione del genocidio, termine non menzionato nei trattati di pace che dieci anni dopo portarono alla pace, era sceso il silenzio delle opportunità. Che impedì a lungo al mondo di sapere che in Cambogia, sotto i khmer rossi, erano morte almeno un milione, se non un milione e mezzo, di persone. Luce su questi tragici avvenimenti getta adesso un libro che, grazie alla giornalista Christine Chaumeau, ha trasposto dalla cinepresa alla carta l'ultima opera cinematografica di Rithy Panh. Dedicata appunto alla “macchina di morte dei khmer rossi”. Rithy Panh è un cambogiano scampato allo sterminio che riuscì a scappare in Francia mentre la sua famiglia veniva sterminata. Da allora per lui, ricostruire e restituire la memoria di quel periodo, è stata un'ossessione, culminata in diversi lungometraggi e documentari sul triennio dell'orrore. Il libro ha però anche una particolarità che non ha forse precedenti. Fa parlare oltre alle vittime, che ricostruiscono la quotidianità concentrazionaria della prigione (solo in sette si salvarono), anche i carnefici. E sono loro a restituire l'ordinaria quotidianità burocratica della macchina della morte. Macchina di cui erano ingranaggi. Stritolati come le loro vittime, con l'unica differenza che ai carnefici era consentito vivere. Senza acredine nè senso di vendetta, tutto il libro si dipana in un racconto essenziale che fa rabbrividire. E apre una porta su una storia volutamene dimenticata. Invitando a smettere di chiudere gli occhi.