Nguyên Huy Thiêp: il mio Vietnam dopo le bombe e le repressioni
Anni fa, nell'infuriare del conflitto in Vietnam, ho sentito per caso alla televisione, non ricordo più se tedesca o francese, un'intervista a un dirigente nordvietnamita il quale, in un perfetto francese, diceva che il suo popolo, coinvolto da decenni in una guerra che aveva impegnato più generazioni, correva il grande pericolo di identificare la vita con la guerra, di non saper concepire la vita senza la guerra. Finita vittoriosamente quella con gli Stati Uniti, ci sarebbero poi ancora state la spedizione in Cambogia, e la batosta inflitta all'armata cinese scesa incautamente per punire il Paese teoricamente fratello. Non ho mai dimenticato la civiltà con cui quel leader, in un momento assai duro del suo Paese sotto le bombe americane, parlava della guerra, rassegnato a farla e come l'esito ha dimostrato con risoluta efficacia, ma preoccupato che essa potesse venire a poco a poco accettata o addirittura diventare un ideale.
Quando, molti anni dopo, sono stato nel Vietnam unificato, ero io che pensavo alla guerra di un tempo molto più dei miei ospiti e interlocutori vietnamiti, protesi al presente e al futuro. L'atmosfera gentile di Hanoi suggeriva la pace, non il culto dell'eroico passato prossimo; diceva la vita modesta e operosa di un popolo amante delle piccole cose, che ha onorato con fiori i soldati cinesi che ha dovuto abbattere quando l'hanno invaso. Nguyên Huy Thiêp nei suoi bellissimi racconti di vita umile e oscura, che non ha bisogno della guerra per dover tirar fuori il coraggio e la pazienza necessari per sopravvivere esprime profondamente questa corda essenziale della sua gente, la sua difficile e pacifica epica quotidiana nei campi, nella foresta, nelle risaie, sui fiumi anni fa incendiati dalle bombe al napalm e stampati nella nostra memoria da Apocalypse Now. Gli interessa la vita, che sente opposta alla guerra: in questo senso la sua voce, personalissima e insieme corale, è una consolante risposta alla preoccupazione di quel lontano dirigente. Nell'intelligente retorica che spesso segue una gloriosa vittoria, accentuata in questo caso dal regime autoritario di Hanoi, Nguyên Huy Thiêp è divenuto un dissidente, in quegli anni che hanno visto la ricostruzione del Vietnam (scolarizzazione, opportunità estese a quelli che prima erano plebe) ma anche la violenta repressione, la vendetta travestita da rieducazione in durissimi campi di prigionia, la persecuzione dei boat people, la fallimentare riforma agraria da anni apertamente e liberamente criticata con la sua collettivizzazione che ha travolto tanti piccoli proprietari e creato nuovi profittatori e favoritismi. In questo clima, Nguyên Huy Thiêp nato nel 1950, studente alle scuole cattoliche nonostante le tradizioni buddhiste e confuciane della famiglia, insegnante e poi illustratore di testi scolastici è divenuto un dissidente, con difficoltà e talora divieto di pubblicare e di recarsi all'estero, ostacoli poi superati. Ma già alcuni anni fa, a Hanoi, ho potuto incontrarlo liberamente. In tutte le sue vicissitudini, ha mantenuto un'assoluta coerenza alla sua vocazione di scrittore; per questo è considerato il più grande tra gli autori contemporanei del suo Paese, pure in un periodo in cui la letteratura vietnamita conosce una vivace fioritura, che comincia a essere nota anche in Italia. Nel suo romanzo Ai nostri vent'anni, che scava poeticamente nei rapporti tra padre e figlio, ha offerto un quadro critico della sua società inquinata da droghe e prostituzione e al contempo controllata autoritariamente dal partito; l'ha criticata anche in nome della politica del do moi, l'apertura democratica ed economica iniziata nel 1986 dal governo. Che la più viva letteratura contemporanea vietnamita sia dissidente o comunque critica non può stupire ed è anzi un segno di vitalità; anche la guerra viene rappresentata (e non solo dai rifugiati negli Stati Uniti) senza alcuna retorica, a differenza che in passato, e anzi nei suoi orrori, come nelle opere di Bao Ninh e Duong Tho Huong, che è stata intrepidamente a capo di una brigata giovanile e poi, in pace, si è battuta per i diritti umani, lasciando alla fine il Paese. Ma se le autorità vietnamite hanno stoltamente maldigerito la rappresentazione del prosaico dopoguerra seguito all'eroico conflitto data da Nguyên Huy Thiêp nel suo più celebre racconto, Il generale in pensione, è anche ingenuo o stolto meravigliarsi, come accade in Occidente, che il Vietnam sia un paese come gli altri, capace di grandezza in determinati momenti storici e ovviamente non scevro di errori o colpe in altri. Essere stato capace di una grande, straordinaria guerra di liberazione non trasforma necessariamente il Vietnam in un Paese di santi, eroi e navigatori, immuni dalle contraddizioni, errori corruzioni e sopraffazioni di cui ogni Stato e ogni società si rendono prima o dopo colpevoli. L'infame guerra dell'oppio fatta dalla Francia o dall'Inghilterra per imporre la droga ai cinesi, ad esempio, non diminuisce la grandezza di ciò che questi due Paesi hanno fatto in altre circostanze per la libertà e la democrazia. Nguyên Huy Thiêp è uno scrittore libero, in un Paese che va sempre più aprendosi a una società civile. Nei suoi racconti egli coglie l'intensa poesia della sua terra mescolando la dura esistenza contadina a una fantasia mitica che prende corpo nei pensieri e nei sentimenti degli uomini. Racconta, senza illusioni ma con amore, la foresta, il lavoro dei taglialegna, lo scorrere dei fiumi in cui il mormorio di leggende antiche si incontra con le pene e i desideri del presente, della vita che fluisce antica e nuova. Nguyên Huy Thiêp è maestro del cogliere il dettaglio, ciò che svela un sorriso, un'ombra nel bosco o un gesto qualsiasi; coglie tutto questo con una lucida e precisa freddezza stilistica, che trasmette tanto più fortemente la poesia delle cose e del cuore. Pietas familiare, distacco di generazioni, trasformazione sociale che s'inserisce nel solco della storia come un rivolo in un grande fiume; animali, spiriti della foresta, utensili, cibi, odori. Leggere Nguyên Huy Thiêp conferma l'impressione di forza e di gentilezza che si prova quando si entra nel suo paese; anche grazie a lui il Vietnam appare, per usare un'espressione di Canetti, una «provincia dell'uomo».